Il lago di Nemi (in Latino: Lacus Nemorensis, o Speculum Dianae) è un piccolo lago vulcanico, posto tra Nemi e Genzano di Roma, poco a sud di Roma, a quota 316 m s.l.m. ben 25 metri più in alto del lago Albano, sui Colli Albani nel territorio dei Castelli Romani. Esteso per circa 1,67 km2, ha una profondità massima di 33 metri. Si tratta di un lago vulcanico dalle caratteristiche simili a quelle del lago Albano, rispetto al quale è notevolmente più piccolo. Dal punto di vista geologico, fa parte della zona detta complesso vulcanico dei Colli Albani (oppure del Vulcano Laziale). Secondo il rapporto di Goletta dei Laghi del 2009, il lago risulta balneabile per la sua interezza ad eccezione della zona antistante il Museo delle Navi. Rigogliosa è la coltivazione di fragole.
Il lago di Nemi è l’unico lago italiano in cui vive il pesce re, specie sudamericana introdotta per favorire la pesca. Il lago era un apprezzato luogo di divertimenti e villeggiatura degli antichi romani. Tra l’altro, nelle vicinanze erano situati un bosco e un luogo di culto dedicati alla dea Diana; “Nemi” infatti prende il nome (e lo attribuisce anche al paese che sorge sopra di esso) dal Nemus Dianae, bosco sacro dedicato alla dea; l’edificio di età romana a lei dedicato, il tempio di Diana, sorgeva originariamente sulle rive del lago ma ora ne è relativamente distante per la diminuita capienza del bacino. L’emissario, anch’esso di epoca romana, nel suo tratto sotterraneo è lungo 1650 metri, passa sotto Genzano attraversando il recinto craterico del Vulcano Laziale e si riversa incanalato nella Valle Ariccia.
Il Museo delle Navi
Nessun autore dell’antica Roma ha mai parlato delle navi. Se ne supponeva l’esistenza perché, già nel medioevo, accadeva che, di tanto in tanto, venissero pescati alcuni reperti archeologici. Si fecero diverse ipotesi sia sull’esistenza delle navi che su chi le avesse volute finché, tra i diversi reperti pescati, comparvero le cosiddette fistulae aquariae. Si trattava di grosse tubazioni in piombo che facevano parte di un impianto idraulico piuttosto costoso utilizzato dalle ricche famiglie romane per portare acqua corrente all’interno dei palazzi. Questi tubi erano ricavati da lastre rettangolari di piombo su cui si era soliti stampigliare il nome del proprietario, spesso il nome del liberto idraulico e a volte un numero progressivo. Da ciò si ricavò che appartenessero all’imperatore Caligola. Quando questi morì, presumibilmente, le due navi furono affondate, nel rispetto della condanna alla damnatio memoriae.
Il primo tentativi di recupero fu voluto dal cardinale Prospero Colonna nel 1446. Il cardinale, signore di Nemi e uomo di vasta erudizione affidò il difficile compito a Leon Battista Alberti. Le operazioni di recupero delle navi ebbero inizio e furono descritte da Flavio Biondo da Forlì nella sua “Italia illustrata”. Leon Battista Alberti chiamò alcuni valenti nuotatori genovesi, i marangoni, che raggiunsero e, per quanto fu loro possibile, esplorarono la nave più vicina alla riva e ne riferirono la distanza e la profondità. Si costruì una piattaforma galleggiante e, con delle corde munite di ganci, si tentò di tirare la nave a riva. Si riuscì invece solo a strappare un pezzo dell’imbarcazione, danneggiandone seriamente la struttura.
Il secondo tentativo fu voluto da Francesco De Marchi nel 1535. Il tentativo è documentato nel suo trattato di “Architettura militare”. Il 15 luglio 1535 De Marchi decise di immergersi personalmente avvalendosi di una specie di campana inventata da Guglielmo di Lorena, che partecipò alle immersioni. Cominciò ad osservare la nave più vicina alla riva, che era anche quella che giaceva a minor profondità. La lunghezza secondo la sua valutazione era di sessantaquattro metri e la larghezza di venti. Il legno, protetto dal fango, era ben conservato anche se aveva quasi duemila anni. Si cercò più volte di cingere la nave con fasce e cordami, nel tentativo, inutile, di riportarla in superficie.
Negli anni successivi vi furono numerosi saccheggi da parte dei pescatori del lago di cui è data testimonianza nelle “Memorie sui conventi francescani” di Padre Casimiro. Nel settembre 1827, si tentò per la terza volta l’impresa del recupero delle navi. Il nobile cavaliere Annesio Fusconi decise di servirsi nuovamente della campana. Ne costruì una abbastanza grande da contenere otto marangoni. Fu, poi, realizzata una piattaforma galleggiante, piuttosto ampia, idonea a sostenere la campana ed a calarla in acqua mediante quattro argani. Il 10 settembre del 1827 si diede inizio al tentativo di recupero della nave più vicina alla riva: fu immersa la campana con dentro gli otto marangoni che però, una volta sul fondo, non poterono asportare grandi quantitativi di materiale. Furono allora legate alcune gomene agli argani e si avvolsero delle cime allo scafo. Ancora una volta le corde si ruppero e l’impresa fu rimandata.
Il 3 ottobre 1895, su incarico della famiglia Orsini e con il contributo dello Stato, si procedette al quarto tentativo di recupero. Ci si avvalse della collaborazione di un provetto palombaro, che esaminò accuratamente la nave più vicina alla riva e tornò alla superficie con la ghiera di un timone. Si divelsero dallo scafo le famose teste feline e poi, ancora, rulli sferici, rulli cilindrici, cerniere, filastrini in bronzo, tubi di piombo, tegole di rame dorato, laterizi di varie forme e dimensioni, frammenti di mosaici con abbellimenti in pasta di vetro, lamine di rame ed altro. Il 18 novembre venne poi individuata la seconda nave, dalla quale si recuperò altro materiale. La maggior parte del materiale recuperato fu acquistato dal governo per il Museo Nazionale Romano. Per impedire l’ulteriore saccheggio da parte dei privati, il Ministro della Pubblica Istruzione, Guido Baccelli, chiese la collaborazione dell’ammiraglio Enrico Morin, Ministro della Marina, per il definitivo recupero delle navi. L’incarico fu affidato al Tenente colonnello Vittorio Malfatti. Questi, affiancato da un espertissimo palombaro, fu in grado di stabilire che la prima nave distava dalla riva circa cinquanta metri e adagiata sul fianco sinistro ad una profondità da cinque a dodici metri. Lontano duecento metri, ad una profondità da quindici a venti metri circa, giaceva la seconda nave, anch’essa adagiata sul lato sinistro ed anch’essa semi coperta dal fango. Tuttavia i tempi non erano ancora maturi per il recupero.
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